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Perché l'amore non è mai perfetto

C’è chi dice che l’amore sia cieco. E che non sia affatto casuale che Cupido, il dio dell’amore, sia sempre bendato. Come spiega d’altronde Erwin Panofsky, uno dei maggiori storici dell’arte, l’amore è cieco perché «non gli importa ove si volga, in quanto l’amore discende sul povero come sul ricco, sul brutto come sul bello. È detto pure cieco perché la gente è da lui accecata, poiché nessuno è più cieco di un uomo influenzato dall’amore per una persona o una cosa». 

Certo, nel Rinascimento fa la sua apparizione anche un Cupido senza bende, che rappresenta l’amore veggente: quello sacro e spirituale collegato al matrimonio cristiano. Fino ad opporre erôs e agapê, l’amor sensuale e la carità cristiana. Ma che cosa conosce dell’altro questo Cupido celeste? Si può davvero contrappore la cecità della passione alla conoscenza della carità?

Che ci sia una differenza tra la passione e l’amore l’ho già scritto più volte. Esattamente come ho ripetuto fino alla noia che l’amore accade solo «dopo», quel «dopo ontologico» che ci permette di renderci conto che è solo con l’altra persona che si è liberi di essere se stessi, con tutte le proprie contraddizioni e le proprie fratture. Ma questo non vuol dire – almeno credo – che l’amore possa permetterci di conoscere l’altro, esattamente come l’altro non può mai conoscerci fino in fondo. L’amore non è affatto cieco. Ci vede benissimo. Ma non vede quello che la conoscenza ordinaria ci permette di sapere. 

Perché la conoscenza è fatta soprattutto di razionalità e di logica, di elementi che si accumulano e che ci permettono di arrivare a determinate conclusioni. Mentre in amore, di «fatti» e di «conclusioni» ce ne sono molto pochi. E la «conoscenza» dell’altro è impastata di mistero e di oscurità. Chi potrebbe d’altronde affermare con certezza di conoscere l’essenza del proprio desiderio? Chi potrebbe dire di essere «questo» e non «quest’altro»? Chi potrebbe anche soltanto immaginare di sapere esattamente chi è, e verso dove va?

La conoscenza dell’amore è fatta di misteri e di intuizioni. La consapevolezza di essere «riconosciuti» dall’altro e di «riconoscerlo» anche quando non si sa bene perché l’altro ci accetti così come siamo e perché anche noi accettiamo l’altro così com’è. Nonostante le incertezze e le insoddisfazioni. Nonostante le amarezze e i segreti dell’esistenza. Nonostante tutto. 

«Ma allora conoscere e riconoscere non hanno niente in comune?» mi chiede una ragazza alla fine di una conferenza, dopo aver cercato di mettere insieme i pezzi del puzzle che dissemino qui e là, e dopo aver cercato di spiegare per quale motivo l’amore non sia mai «tondo», come avena invece lasciato intendere un collega contrapponendo il Cupido bendato a quello senza bende. «L’amore non è ‘tondo’ perché non è mai perfetto», le rispondo allora. «E riconoscere l’altro non significa conoscere tutto di lui o di lei. In realtà di lui o di lei non sappiamo quasi niente. A parte il fatto che è con lui o con lei che ci sentiamo accolti e liberi».

La ragazza annuisce sorridendo. Poi, quando viene a salutarmi, mi dice che si sente meno sola. Ora la smetterà anche lei di voler capire «tutto» e di cercare di trovare chi corrisponda alla sua idea di amore. Per «riconoscere» senza «conoscere». E imparare così a condividere con l’altro i segreti che anche lei si porta dentro.

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