Cartoline

Chi mi conosce bene, sa che uno dei passaggi fondamentali della mia formazione psico-socio-fisico-culturale-umana ha un nome ben preciso: LA COLONIA.
Non ho mai chiarito se odiassi di più i miei genitori che mi costringevano ad una simile tortura ogni anno (dai sei ai dodici senza interruzioni) o la colonia essa stessa in sé come istituzione, una specie di caserma per bambini in cui anche il bagno - rigorosamente tra le 11.00 e le 11.30 e le 16.00 e le 16.30 - somigliava più alla mattanza dei tonni piuttosto che ad un momento piacevole e ricreativo.

Ieri sera stavo cercando un segnalibro - e già il fatto che stessi leggendo+un+libro dovrebbe essere di per se preoccupante - e, visto che mi piace usare foto vecchie mie o della family, rovistando nel cassetto di Eta Beta ecco materializzarsi tra le mani le cartoline che avevo inviato alla mia Mamma (solo a lei, il che è tutto dire) durante il secondo anno di galera legalizzata in quella ridente località chiamata Piazzatorre (Bergamo, per intenderci).

Anno del Signore 1981. Sette anni appena compiuti. Da sola. In un posto sconosciuto. Per 21 giorni. Circondata da tanti piccoli Enrico Bertolino quando imita il muratore bergamasco. Un incubo.

Passiamo all'analisi dei reperti.

A parte l'errore di ortografia drammatico (ma quello è colpa della mia maestra delle elementari, cara la mia G.), a parte che me la sono auto inviata perchè forse a sette anni sapevo il mio di indirizzo, ignorando che per la mia mamma fosse uguale (!), a parte scrivere che "ho una brava signorina" in maniera molto disinteressata, visto che in alto a sinistra ha firmato pure lei (...) quello che mi fa una tenerezza infinita era il rassicurarla che stessi bene e soprattutto che mangiassi "tutto quello che mi danno" senza fare capricci, senza lamentarmi come voleva lei (vedi, mamma, che sto facendo la brava) e segno inequivocabile del ruolo fondamentale che il cibo avrebbe avuto per il resto della mia vita. Scriverle che in realtà piangevo in continuazione perchè mi mancava da morire non era bello... ma era la verità. A sette anni mi nascondevo già. Ed a quanto pare non ho più smesso di farlo.


Le due sotto sono incredibili.
Addirittura erano apparsi dei cuoricini, chiari indicatori del fatto che la nostalgia che mi massacrava per tutti quei giorni iniziava a non poter più essere trattenuta. Ma quello che mi ha colpita è il non parlare mai di me nella maniera più assoluta, cioè zero proprio, per rivolgere un pensiero ai miei zii, ai miei cuginetti, ad un amico di famiglia - e la sua mamma e il suo papà - al Marco, il mio compagno di classe preferito, alla mia maestra ed alla nostra vicina di casa. Chissà cosa significava per una bambina così piccola scrivere alla Mamma di salutare tutti quanti. Salutarli e "tanti bacioni". Che poi io tutti quei baci li avrei voluti dare solo a lei, senza nulla togliere a tutte le persone che raccomandavo e che sicuramente, per un motivo o per l'altro, avevo nel cuore.


L'unica cosa certa è che già allora avevo la testa piena di persone. Trascorrevo tutti e i ventuno giorni in lacrime ad aspettare due momenti: la domenica in cui i miei genitori potevano venire a trovarmi (una sola, ovviamente. Come in caserma, appunto) e la sera dell'ultimo giorno durante la quale di solito si organizzava una specie di festa di fine mandato. 

Ed era li, che qualcosa non mi tornava.

 Tutti piangevano ed invece io, finalmente, sorridevo.

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